Pubblichiamo in questa uscita alcuni estratti dal volume Teatro statico, di Fernando Pessoa, di recente edito presso Quodlibet (2024). L’insieme di frammenti conosciuti con la definizione di “teatro estático” è, di fatto, una serie disordinata di abbozzi, molti dei quali semplici schizzi di difficile classificazione, tra i quali merita una posizione di prominenza O Marinheiro. Drama Estático em um Quadro (Il marinaio. Dramma statico in un quadro), l’unico compiuto e pubblicato – sul primo numero di «Orpheu». – nel marzo 1915. 

Il multiforme sistema di personalità poetiche intessuto da Fernando Pessoa è per sua natura drammatico, come lo è l’intero processo per cui si sviluppano le creature poetiche che prendono parte al suo “eteronimismo”. Sebbene la tendenza drammatica di cui è pervasa tutta la sua produzione letteraria non si esaurisca, se non in minima parte, nella scrittura teatrale propriamente detta, le sue pièces, e in particolare questi quattordici drammi statici, si presentano come una sorta di officina letteraria, che, pur mantenendosi sempre al di qua del teatro, permettono di avvicinarsi alla sua costante e continua attività drammaturgica.

La selezione si apre con un breve appunto teorico di Pessoa sull’idea di teatro statico, seguito da un brano tratto da Il marinaio, un frammento di Dialogo nel giardino del palazzo, due estratti da La morte del principe e due da Salomè.

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Da Appunti sul teatro statico

  1. Chiamo dramma statico quello che, lungi dal cercare di mostrare l’azione, intende mostrare delle inerzie, cioè intende rivelare le anime in ciò che esse contengono e che non produce azione, né si rivela mediante l’azione, ma rimane all’interno di esse, quindi tutto ciò che, nel buon teatro dinamico, non può mai apparire nel dialogo. Ciò che sarebbe più normale che la letteratura lirica desse, o, al massimo, la poesia narrativa, in ciò che proviene dalla lirica, forma la base del teatro statico. Nel teatro dinamico le anime presentano la loro forma sociale; nel teatro statico dovranno mostrare la loro forma impenetrabilmente individuale. Il teatro statico utilizza il movimento inesprimibile, quello vitalmente intraducibile. Perciò il teatro statico deve essere assolutamente irreale e falso. È teatro perché, come ho detto prima, è teatro la forma totalmente sintetica della letteratura.

Da Il marinaio – Dramma statico in un quadro

[…]

PRIMA [VEGLIATRICE]A breve sarà giorno… Manteniamo il silenzio… Lo vuole la vita… Vicino alla casa in cui sono nata c’era un lago. Io ci andavo e spesso mi sedevo sulla sua sponda, su un tronco d’albero che pendeva quasi fin dentro l’acqua… Mi ci sedevo in punta e mi bagnavo i piedi in acqua, allungando le dita verso il basso. Poi mi guardavo eccessivamente le punte dei piedi, ma non per vederle… Non so perché, ma mi sembra che quel lago non sia mai esistito. Ricordarlo è come non potermi ricordare di nulla… Chi sa perché dico questo e se sono stata io a vivere quello che ricordo?…

SECONDA In riva al mare siamo tristi quando sogniamo… Non possiamo essere quel che vogliamo essere, perché quel che vogliamo essere vogliamo sempre esserlo stati nel passato… Quando l’onda si sparge e la schiuma scroscia, sembra che ci siano mille minuscole voci che parlano… La schiuma sembra fresca solo a chi la crede unica… Tutto è molto e noi non sappiamo nulla… Volete che vi racconti cosa sognavo in riva al mare?

PRIMAPotete raccontarlo, sorella mia, ma nulla in noi sente la necessità che ce lo raccontiate… Se è bello, provo già pena di quando l’avrò ascoltato. E se non è bello, aspettate…, raccontatelo solo dopo averlo modificato…

SECONDAVe lo racconterò. Non è interamente falso, perché certamente nulla è del tutto falso. Deve essere stato così… Un giorno in cui mi ero inclinata sulla fredda sommità di uno scoglio, in cui mi ero dimenticata di avere padre e madre e che c’era stata in me un’infanzia e altri giorni, quel giorno vidi in lontananza, come cosa che solo io pensavo di vedere, il vago passare di una vela… Poi sparì.… Quando tornai in me, capii che avevo già quel mio sogno… Non so dove fosse iniziato… E mai più ho rivisto un’altra vela… Nessuna vela delle navi che qui salpano dai porti somiglia a quella, neanche quando c’è la luna e le navi passano lentamente in lontananza all’orizzonte…

PRIMAVedo dalla finestra una nave lontana… Forse è quella che avete visto…

SECONDA – No, sorella mia: quella che vedete va di sicuro verso qualche porto… Quello che vidi io non poteva essere alla ricerca di un porto…

PRIMA  – Perché mi rispondete?… Può darsi… Io non ho visto nessuna nave dalla finestra… Volevo vederne una e ve ne ho parlato per non averne pena… Raccontateci adesso di quello che avete sognato in riva al mare…

[…]

Da Dialogo nel giardino del palazzo

2 – Realizzare l’amore è disilludersi. Quando non  è disilludersi, è abituarsi. E abituarsi è  morire. Per parte mia, io nella vita ho amato, e amo, solo uno straniero di cui una volta ho visto appena il profilo, al calar della sera, mentre eravamo in mezzo a una folla.

1 – Ma lui sa che tu lo ami? Se lui non sa che lo ami, a che ti serve amarlo?

2 – Il mio amore è mio, sta in me e non in lui. Cosa ha lui a che fare con me se non il fatto che lo amo? Se lo conoscessi, la sua prima parola sarebbe la nostra prima delusione… Anche se lui non mi amasse!… Ma lui mi amerebbe, e dunque che ne sarebbe del nostro amore? Amiamo solo ciò che non esiste, è perché non esiste che lo amiamo. Varrà la pena di amare ciò che possiamo avere? Amare è voler essere senza poter avere. Amare è non avere. Quello che abbiamo, l’abbiamo; non lo amiamo. Solo il sogno realizza tutto senza che lo si tocchi con mano.

1 – Ah, ma il contatto della mano di chi si ama vale più di qualsiasi sogno…

[…]

Da La morte del principe

[…] 

X – Cosa vedete, Signore, cosa vedete? Calmatevi, calmatevi!
Cosa vedete?

PRINCIPE – Vedo, vedo… vedo attraverso le cose… Le cose celavano… Le cose non erano altro che un velo… Si alza il sipario, si alza il sipario del teatro… Ho paura, ho paura… Ah, vedo, finalmente vedo… Vedo finalmente tutto… Guardate… Guardate… Ora vedo… Vedo le cose reali, vedo le cose che esistono… Vedete che si elevano… Guardatele, le *epoche passate che erano vere e mai lo sono state… Le *guardie perfette, i grandi re come erano e come mai sono stati… I capitani colmi di perfezione… i palazzi senza la macchia di stare nella vita… Guardate… i miei palazzi, i miei castelli, i miei ◊ – quelli erano sogni, senza corpo, senza vita conosciuta… Vedo attraverso le cose come attraverso un leggero velo posto davanti allo sguardo…

Vedo attraverso le cose come attraverso i miei occhi…

Le città sognate erano reali… Le nostre sono soltanto la loro tremula e distorta riflessa nelle acque del mio sguardo… Solo quello che non è mai stato reale esiste davvero… Quello che accade è ciò che Dio butta via… Quello che per noi è reale è il dorso della mano di Dio, l’ombra dei suoi gesti… Le principesse che ho sognato sono quelle che esistono… Quelle della terra sono solo le bambole con cui le altre giocano, quasi vestendole, corpo e anima, del colore che sembra loro adatto nel gioco.

[…] 

PRINCIPE – Tutto questo universo è un libro in cui ciascuno di noi è una frase. Nessuno, di per sé, ha più di un piccolissimo senso, o di una parte del senso; solo nell’insieme di ciò si dice si capisce ciò che ognuno veramente vuol dire. Alcuni sono come frasi che si elevano dal testo per determinare il senso di tutto il capitolo, o di tutta l’intenzione, e sono coloro che definiamo geni; altri sono semplici parole, che in sè stesse contengono una frase, o aggettivi che definiscono benissimo, a volte sono in risalto, ma non dicono ciò che è importante per tutto l’insieme, e questi sono gli uomini di talento; alcuni sono domande e risposte, mediante le quali si dà vita al dialogo, e questi sono gli uomini d’azione; altri sono frasi che affievoliscono il dialogo, rendendolo lento affinché poi sembri più rapido, punteggiature verbali del discorso, e questi sono gli uomini di intelligenza. La maggior parte sono invece frasi fatte, quasi uguali le une alle altre, prive di colore e rilievo, che tuttavia servono per collegare le intenzioni e le metafore, per stabilire la continuità del discorso, per permettere che i rilievi abbiano un rilievo, e sembrano esistere solo perchè quegli altri possano esistere. 

D’altronde, non siamo forse fatti, come la frase fatta di parole comuni (a loro volta di semplici sillabe), della sostanza che risulta, mescolata in vari modi, dall’umanità volgare? Non è forse il nostro amore l’amore di tutti e il nostro pianto le lacrime in quanto tali? Ma ognuno ama e piange sè stesso, e non un altro: ha un aggettivo dentro che lo dissolve e lo definisce.

Da Salomé

SALOMÈ – La mia bellezza rende gli uomini sonnambuli e l’incanto della mia voce li distoglie dal sognare. Le loro predilette mi odiano senza sapere se esisto, perché, tra le vaghe parole dei loro discorsi amorosi, la mia immagine intralcia le frasi ed esse mi sentono passare come un canto di sirena, nelle dimenticanze della voce e nell’allentarsi delle braccia e delle mani che dovrebbero cingere più che stringere. Sono il profumo che, una volta sognato, fa da aura alla loro immaginazione, e non potranno avere sposa, né amata, e nemmeno una sorella a coccolarli, perché si ricordano che io sono la principessa che un giorno fu tutta la loro vita. 

I miei passi vanno leggeri sui prati, come fossero ricordi. Nei gesti che faccio con le braccia c’è il sorriso della mia bocca triste. I miei occhi non conoscono promessa sicura e, quando sono bassi, e soltanto le ciglia sono vive, i cuori si affliggono in grandi torture. 

Dicono che sono la meraviglia, ma io non so chi sono. Abita in me un fluido di disastri che si posa sulle epoche future come una pioggia che è nebbia. Ma io sono l’addormentata. 

A migliaia morirebbero solo per baciare le mie mani. A migliaia lascerebbero la propria casa solo per sentire le loro voci chiamarmi principessa. Per il mio palese disprezzo, in molti darebbero tutti gli amori che hanno avuto e anche quelli che vorrebbero. Sono fatale come le notti e gli autunni, e nel mio cuore c’è già il rimpianto di tutti quelli che ucciderò. 

Gli occhi degli schiavi strisciano quando a malapena possono guardarmi. Passo in mezzo a schieramenti di soldati e li sento tremare come foglie al vento. Rimpiangeranno questo mio momento come una grande maledizione, e si sveglieranno nelle lunghe notti d’estate, quando il sudore penetra nell’anima, pavidi del sinistro ricordo che persiste del mio profilo appena intravisto, dei miei occhi deviati, del taglio delle mie sopracciglia nerissime sulla pelle bruna bianchissima della mia fronte coronata di ombre.

Le schiave mi invidiano con amore, e tutte sognano, sole nel letto, senza un altro petto, come i loro occhi potranno fare innamorare i cani, e come i loro gesti potranno far nitrire i cavalli, nelle lunghe notti in cui la verginità duole nelle viscere. 

I gatti sfiorano le mie gambe e si sentono tigri fin al sesso. Gli uccelli cessano di cantare al mio passaggio, e le alte rose mi sfiorano il viso, perché io possiedo il privilegio dei cammini.

[…]

SALOMÈ(dopo una breve pausa) Supponete che… No, supporre è perdere… No, non è così che si sogna… Aspettate, che voglio vedere… (altra pausa). C’era, nel deserto al di là del deserto, in quella parte di deserto che è di roccia, dove la solitudine è più dura che in mezzo alla sabbia e l’anima più triste che sotto le palme, un uomo che voleva un dio, perché non c’erano dèi degli uomini che abitassero in quei deserti, né in quell’anima. Aveva più sete di un dio di quella che si può avere per l’acqua, e più fame di quella che si può avere per i frutti, che sono come l’acqua e possiedono dolcezza, verso cui i bambini tendono gli occhi e le mani.

Quell’uomo si chiamava Giovanni, perché nel mio sogno si chiama Giovanni. È un nome comune tra gli ebrei, ma per fortuna non ci sono più profeti né rabbini che lo usino ancora. Quest’uomo invocava nel deserto la venuta del dio che voleva, e la invocava perchè la voleva e non perché doveva esserci. Ma egli la invocava talmente tanto che senza dubbio doveva sentirlo quel dio che stava creando. E quel dio sarebbe arrivato alla sua ora, perché per chi sogna non esiste l’ora, né l’anima cessa di andare incontro al proprio destino. 

Ci sono quelli che sono pazzi pur senza pazzia, e sognano da svegli con la vista verso le cose e i sogni. Non cesso di vedervi entrambi, ma vedo, meglio di quanto veda voi, l’uomo che invoca nel deserto la venuta del Dio.

Voglio, con tutto il mio sogno, che questo sogno sia vero. Voglio che resti come verità nel futuro, come altri sogni sono verità nel passato. Voglio che gli uomini muoiano, che i popoli soffrano, che le folle strepitino e tremino, perché ho fatto questo sogno. Voglio che il profeta che ho immaginato crei un dio e una nuova maniera di concepire gli dèi, e altre cose, altri sentimenti, e un’altra cosa che non sia la vita. Voglio un sogno così grande che nessuno riesca a realizzarlo. Voglio essere la regina di un futuro che mai sarà, sorella di dèi maledetti, madre vergine e sterile degli dèi che mai saranno.

Cos’è stato questo grido nella notte, là sotto?

A – Hanno portato al Tetrarca la testa di un bandito.

SALOMÈ – Portatemi la testa del bandito. Portatemela su un vassoio d’oro. Di chi è questa testa?

X – Di un bandito che uccideva nei villaggi.

SALOMÈ – Non voglio che sia di un bandito che uccideva nei villaggi. Voglio che sia di un santo che creava dèi.

X – Era di un bandito che uccideva nei villaggi.

SALOMÈ – No… Avvicinami il vassoio. Vedete, le palpebre potrebbero essere quelle di un sognatore e la bocca quella di un peccatore pentito o di un asceta che non ha mai peccato. Ha delle rughe sulle guance, potrebbero essere di veglia o di odio, ma questo importa pochissimo, perchè adesso stiamo creando la storia. Allontana un po’ la testa. Voglio vederla, ma non voglio vederla bene. Allontanala ancora un po’. Là, dove si trova ora, è come se il chiar di luna la cingesse di maleficio. Quanti altri chiari di luna ci saranno nel sogno che altri faranno del mio! Portala un po’ più in là. Sono stanca. Ho sognato troppo. Che uomo era costui?

X – Era un bandito che uccideva nei villaggi.

SALOMÈ – Non ti ho già detto che questa è la testa di un santo che creava dèi? Perché dici che è di un bandito che uccideva nei villaggi? Chiamate il capitano di guardia, quello biondo e triste.

[…]

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Fernando Pessoa,
Teatro statico, ed. originale a cura di Filipa de Freitas e Patricio Ferrari, ed. italiana a cura di Andrea Ragusa, Macerata, Quodlibet, 2024.

Per scaricare le traduzioni in pdf: Fernando Pessoa – Teatro Statico

Immagine di Francesca Coldebella Bergamin

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