«Io sto qui – non posso fare altro»: una lettura di “Kamen’” di Osip Mandel’štam

Rodchenko, Chauffeur (1933)

di Pietro Cardelli

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Introduzione

Quando Kamen’ viene pubblicato per le edizioni «Akmè» nel marzo 1913 a Pietroburgo, Mandel’štam è già un personaggio affermato dell’Intelligencjia russa del tempo. Dopo aver completato gli studi in Europa, tra Parigi e Heidelberg, il poeta ebraico era infatti tornato in Russia, dove si era inserito nell’ambiente culturale simbolista. Qui frequenta la ‘Torre’ di Ivanov – sede dell’Accademia del verso di Pietroburgo –, ottiene numerosi apprezzamenti nell’ambito letterario, frequenta le serate culturali nei vari caffè della città e nel 1911, dopo aver conosciuto Gumilev e Anna Achmatova, entra a far parte della ‘Gilda dei poeti’, legandosi così alla rivista «Giperborej» e al nascente acmeismo. Le sue poesie iniziano a circolare già dal 1906, e quattro anni più tardi i primi testi inediti vengono pubblicati sulla rivista del movimento «Apollòn». Intanto il 14 maggio, a Viipuri, si era fatto battezzare da Rozén, pastore della chiesa metodista di Finlandia.

Sono gli anni convulsi della caduta dello zarismo; Pietroburgo è una città che ferve sia dal punto di vista intellettuale che politico. Le conseguenze della rivoluzione del 1905 sono presenti e vive; le aperture al liberalismo tenui ed apparenti. Il simbolismo, fulcro della cultura russa nel passaggio al nuovo secolo, si sta rapidamente estinguendo, come se non avesse più la forza e le risposte adatte per interpretare un mondo in continuo mutamento. È su questi presupposti che nel marzo 1912 la ‘Gilda dei poeti’ dà vita all’acmeismo1 o adamismo2, uno dei principali movimenti post-simbolisti della Russia novecentesca.

La nascita dell’acmeismo fu una vera e propria rivoluzione per la cultura pietroburghese del tempo. Il primo numero di «Apollòn», ad inizio 1913, con i due manifesti del movimento – L’eredità del simbolismo e l’acmeismo di Gumilev e Alcune correnti della poesia contemporanea di Gorodeckij – scatenò un terremoto negli ambienti letterari. Per la prima volta dopo l’esperienza di Kuzmin3, veniva espresso un attacco frontale, spietato, deciso al simbolismo, non solo dal punto di vista della poetica, ma anche da quello filosofico-gnoseologico. Un nuovo mondo si stava aprendo davanti a questa generazione di poeti, un mondo che necessitava uno sguardo differente. Due sono le critiche principali che Gumilev e Gorodeckij portano alla Weltanschauung e alla poetica simbolista: da un lato viene rivalutata positivamente l’inconoscibilità del noumeno4; dall’altro si propone una rinnovata dialettica fra soggetto e oggetto, uomo e mondo, intelligenza e universo. A differenza dei simbolisti, per Gumilev, Gorodeckij, Achmatova e Mandel’štam il mondo esterno esiste, ed è valido nella sua unica realtà conoscibile. Compito del poeta sarà quindi quello di cogliere l’immanenza di questo mondo; guardarlo e accettarlo nella sua totalità, positiva o negativa che sia; definirlo interamente, fenomeno per fenomeno, evitando sia i voli pindarici nel trascendente, sia la preminenza del suono sul gesto, della musica sulla costruzione. Un imperativo anima le voci di questi poeti: tornare fra gli uomini, toccare di nuovo la realtà delle cose.

È in questo clima e su queste orme che Mandel’štam pubblica Kamen’ nel marzo 1913. In realtà già all’inizio dell’anno precedente il poeta di Varsavia aveva manifestato la volontà di dare alle stampe la sua prima raccolta, con il titolo di Rakovina [‘Conchiglia’]. Furono però la nascita dell’acmeismo e le nuove questioni da esso aperte a rallentare il processo di pubblicazione. Il mutamento del titolo sarà poi dovuto a Gumilev poco prima dell’uscita della raccolta, titolo che avrà molta fortuna in seguito. Kamen’ [‘Pietra’] è infatti un termine pregnante sia in rapporto al movimento acmeista che alla poesia del primo Mandel’štam. Assume qui tre significati: in primo luogo è il segno tangibile della solida concretezza del reale, del quotidiano, dell’immanente, di quell’evidenza fenomenica, fine dello sguardo acmeista; in secondo luogo è il simbolo, o meglio, il correlativo oggettivo della parola poetica. I testi mandel’štamiani si costruiscono infatti come un’architettura, un’opera unitaria eretta dal poeta, associando versi e parole come fossero pietre. Infine Kamen’ è l’anagramma di akmè, lemma greco che ha dato il nome all’acmeismo.

L’edizione di Kamen’ pubblicata da «ilSaggiatore» nel 2014, tradotta e curata da Gianfranco Lauretano, si rifà all’edizione critica di Ginsburg, Mets, Vasilenko, Frejdin5 e a quella dello stesso Frejdin e di Gasparov6. Pur ampliata con testi pubblicati anche successivamente, la struttura della raccolta è costruita in particolare sulla seconda edizione del libro, uscita a San Pietroburgo nel gennaio 1916 per «Giperborej». Come ricorda Lauretano, «l’idea di una nuova edizione era nata su iniziativa dell’editore M. Aver’janov per il marchio Iperborea. […] La principale innovazione compositiva rispetto alla prima edizione del 1913 era la riabilitazione delle poesie preacmeiste, sedici delle quali risalgono al periodo 1908-12»7. Questo ampliamento è significativo. Il Mandel’stam di questa edizione di Kamen’ conserva ancora, in certi momenti, uno sguardo incerto e nostalgico, pur nell’accettazione del mondo. Alcune espressioni o atmosfere ricordano i tratti paesaggistici di Tjutcèv o addirittura la poesia francese simbolista – da lui letta e conosciuta al tempo degli studi a Parigi –, in particolare Verlaine8. È possibile quindi, proprio grazie all’addizione di queste poesie giovanili, individuare e comprendere l’evoluzione del discorso poetico mandel’štamiano: gli inizi legati alla tradizione, l’avvicinamento e l’adesione all’acmeismo, e infine la costruzione e la presa di consapevolezza della propria parola. In questo senso Kamen’ è il libro fondamentale dell’esperienza di Mandel’štam, il più sincero e aperto al lettore. Cerchiamo quindi adesso di comprendere questa evoluzione, il progressivo farsi individuo e voce del poeta di Varsavia.

Entrare nel mondo. Il mattino dell’acmeismo

Al tempo della pubblicazione di Kamen’, Mandel’štam è fortemente legato all’acmeismo. Frequenta costantemente Gumilev e Anna Achmatova, e con loro, assidui clienti del cabaret «Il cane randagio», discute con fervore della poetica che stanno costruendo. Decide quindi di scrivere il terzo, definitivo, manifesto del movimento, il quale verrà poi pubblicato solo nel 1919 sulla rivista «Sirèna» con il titolo, Il mattino dell’acmeismo9. L’intento con cui Mandel’štam scrive queste poche ma dense pagine è lo stesso che aveva animato Gumilev e Gorodeckij: sancire la fine del simbolismo così da aprire nuovi spazi alla poesia russa.

Il mattino dell’acmeismo si esplica in sei punti, nei quali Mandel’štam, in un perfetto connubio fra Parola e Logos, descrive quella che sarà la poesia acmeista. Fulcro dell’analisi mandel’štamiana è il concetto di parola come tale. Essa raccoglie un insieme di significati; è sia strumento del poeta che opera d’arte in sé, elemento autentico e autosufficiente. La nuova poesia dovrà quindi saper cogliere la forza e la validità di ogni fenomeno, così da poterlo definire con la massima chiarezza e pervasività. Forma e contenuto, Parola e Logos, stanno per Mandel’štam sullo stesso piano. Occorre riprendere contatto con il mondo empirico, abbandonare definitivamente la trascendenza, così da ritrovare una nuova vicinanza con lo spazio e le cose. Come un architetto, anche il poeta deve porsi il problema di come eludere il vuoto a partire dalle singole pietre della parola: «Costruire – scrive Mandel’štam – significa combattere contro il vuoto, ipnotizzare lo spazio»10. Solo l’esito del gesto poetante, l’opera d’arte in sé, permette in conclusione di raggiungere la vera essenza della poesia, la consapevolezza che tutti i fenomeni hanno pari importanza, e che ogni unità è singolare ed eterna per sé. «Esistere, ecco la massima aspirazione del poeta»11, e con lui della parola e del fenomeno.

La rivoluzione portata dall’acmeismo alla poesia russa, e che emerge con forza in questo saggio di Mandel’štam, è in primo luogo un atto di sincerità nei confronti del mondo. «Per costruire bene si deve anzitutto nutrire un sentimento di sincera devozione per le dimensioni dello spazio»12 – scrive ancora il poeta. La costruzione acmeista, a differenza delle velleitarie aspirazioni simboliste, poggia saldamente sulla terra e da essa non vuole allontanarsi. Ecco allora il ritorno della quotidianità nella poesia: il gelato e il tennis, il cinematografo e le architetture, le scene di città e gli oggetti più concreti. Inoltre le figure di questa poesia non solo si distinguono per la loro semplicità, ma vengono descritte come se fossero illuminate da una luce chiara e nitida. La malinconia e l’incertezza fanno sempre parte dello sguardo del poeta, ma il mondo resta reale, tangibile e logico nella sua immanenza. È l’accettazione di questo Altro ciò che viene richiesto a chi scrive; in questa difficoltà sta il senso più profondo della poesia acmeista.

Il sesto punto, a conclusione del saggio, rivela l’abisso che separa acmeismo e simbolismo. Qui Mandel’štam si fa promotore di una rivalutazione del Medioevo in senso anti-trascendentale. Scrive: «Amiamo il Medioevo perché esso possedeva al massimo il senso dei limiti e delle barriere. Non mescolava mai piani differenti fra loro e nei confronti dell’aldilà aveva un atteggiamento pieno di riserbo»13. È proprio in questo riserbo, in questa sospensione del discorso sull’aldilà che Mandel’štam ritrova il punto d’incontro fra Medioevo e acmeismo. Il noumeno è qualcosa di inconoscibile. Questo significa non che debba essere negato – il suo tarlo rimarrà sempre la fonte più prolifica di ogni poesia –, ma che qualsiasi utopistica elucubrazione su di esso dovrà essere impedita. Accettare il mondo, accettare i limiti della conoscibilità umana: questa è la sofferenza e allo stesso tempo la nuova forza del poeta acmeista: esistere e accettare interamente l’esistenza.

Un soggetto che muta

Kamen’ è un libro organico e coerente. La concezione di Mandel’štam di una raccolta in versi era quella di un’unità creativa, frutto di un periodo poeticamente ed esistenzialmente ben circoscritto. Kamen’ è proprio questo: il primo immergersi del poeta nel mondo, una solida costruzione che al mattone ha preferito la parola. Esattissimo, in questo senso, ciò che scrive Sergej Averincev riguardo a questi testi: «Le poesie del 1908-1910 costituiscono un fenomeno pressoché unico nell’intera storia della poesia mondiale: è molto difficile trovare da qualche altra parte una tale combinazione tra la psicologia immatura di un giovane, poco più che adolescente, e una così perfetta maturità nell’osservazione e descrizione poetica proprio di quella stessa psicologia»14. Se infatti da un lato Mandel’štam cammina sempre sul labile confine fra una malinconia cosciente e sofferta, dettata dagli intenti della propria poesia e dal corso della propria esistenza, ed una invece adolescenziale, paradossalmente verlainiana; dall’altro è evidente l’abilità osservativa e descrittiva dell’allora giovane poeta di origine ebraica. La realtà si apre davanti ai suoi occhi, e lui mira sempre a cogliere con vivida chiarezza il lineare contorno dei fenomeni. L’argomento del poetare si amplia – «Basta poco per l’ispirazione […]»15 –, ma l’immersione nel mondo fenomenico non reca banalità.

Ad impedire questo rischio, sempre presente quando le occasioni si ampliano, sta il soggetto di Kamen’, radicalmente differente da quello che sarà nel Mandel’štam tardo, fortemente autobiografico. Qui l’autore si nasconde costantemente dietro l’io lirico dei suoi testi, negando sia una totale corrispondenza, sia una completa estraneità fra le due voci. Considerando questa postura è possibile individuare un’evoluzione nel movimento tipico di questo soggetto: inizialmente ciò che si delinea è un vero e proprio gioco a nascondersi che l’autore costruisce dietro il centro d’enunciazione delle sue poesie, un gioco che apparentemente si realizza nei confronti del lettore; in seguito, però, si comprende che questo gesto è da intendersi in realtà più nei confronti di se stesso che dell’altro. Mandel’štam, ancora molto giovane sia in senso biografico che in quanto poeta, è alla ricerca della propria voce e del proprio io. Le immagini della realtà gli scorrono davanti, ma l’io che le descrive fatica ancora a definire la propria parola. Emblematiche, a questo riguardo, le ultime due quartine di una delle poesie centrali della raccolta:

O ampio vento di Orfeo,
te ne andrai ai confini del mare
e, carezzando un mondo increato,
io ho scordato l’inutile «io».

Ho vagato in un bosco giocattolo
e ho scoperto una grotta azzurra…
Davvero io ci sono
e veramente arriverà la morte?16

Come spesso accade in questa raccolta, la voce che parla è espressione di uno spaesamento e di una debolezza nostalgici. È l’individuazione che tormenta il poeta, ancora lontano da una definitiva coscienza di sé. Non è ancora il tempo del riconoscimento, così la voce dei testi emerge non come una costruzione biografica ma come punto d’osservazione, la trascrizione in parola di uno sguardo attento e costante sul mondo.

Nel corso della raccolta, all’evoluzione del contesto delle poesie – si nota infatti a partire dalla metà di Kamen’ uno spostamento nell’ambientazione dei testi: dalla natura, pervasiva nella prima parte, alla città, fulcro della seconda – corrisponde anche una diversa strutturazione del soggetto, la quale si riflette nella costruzione dei versi e in particolare nella sintassi. L’incertezza tende a farsi saldo punto d’osservazione, l’andamento interrogativo e dubitante si muta in assertività. Se infatti la prima parte della raccolta si contraddistingue per immagini e scene caratterizzate da silenzio, incertezza, fissità, immobilità, sconforto, nostalgia, rarefazione; la seconda, invece, si carica di movimento e rumore. La città entra in scena e con lei un ampio numero di presenze, vitali o architettoniche, tese a riempire lo sguardo del soggetto osservante. Questa frattura, o meglio, questo passaggio si fa evidente a partire da testi come Carskoe Selo, La moneta d’oro, Il luterano, per poi esplodere con le Strofe pietroburghesi.

In questa seconda parte, più forti si fanno le influenze dettate dalla poetica acmeista. Il mondo viene definitivamente riabilitato e le poesie si impegnano a cogliere scene di comune quotidianità: il tennis, il cinematografo, Pietroburgo, un’ubriacatura, Bach. Lo sguardo del poeta da contemplativo si è fatto assertivo: i fenomeni vengono colti con minuzia di dettagli, e degli oggetti si vuole evidenziare la fisicità e la concretezza. È qui che Mandel’stam inserisce le famose poesie sulle opere architettoniche, Santa Sofia e Notre Dame, emblema, anche teorico, del verso acmeista.

Poesia e architettura

Ammiragliato

Nella nordica capitale un pioppo si tormenta polveroso
si confonde nel fogliame un quadrante trasparente
e nel verde scuro una fregata, o un’acropoli,
luccica a distanza, consanguinea dell’acqua e del cielo.

Leggero vascello con l’albero scontroso
filo a piombo per i successori di Pietro
esso ci istruisce: la bellezza non è capriccio da semidio
ma l’occhio avido e preciso di un concreto falegname.

Ci sono benevoli i quattro elementi
ma l’uomo libero ne ha creato un quinto.
Non nega forse la supremazia dello spazio
quest’arca costruita castamente?

Fragili meduse si incollano rabbiose
arrugginiscono le ancore come aratri abbandonati;
ed ecco, spezzati i nodi delle tre dimensioni,
si spalancano i mari di tutto il mondo.17

Ancor più che Santa Sofia e Notre Dame, questa poesia, Ammiragliato, è un vero e proprio testo-manifesto del Mandel’stam più convintamente acmeista, fedele ai dettami di Gumilev e alle proprie teorizzazioni di poetica. Alla base della raccolta, sta infatti una costante dialettica fra spazio e tempo, dialettica che ha la propria sintesi nei concetti di totalità, di organicità, di eternità. Prendiamo in considerazione adesso la prima delle due intuizioni pure, così come le chiamava Kant.

Ammiragliato si presenta veramente come la realizzazione in versi di alcuni principi di poetica: «[…] la bellezza non è capriccio da semidio / ma l’occhio avido e preciso di un concreto falegname». Con la costante volontà di contrapporsi alle idealizzazioni simboliste, Mandel’stam costruisce una nuova figura di poeta, più materiale, quotidiana, concreta, rispetto a quella dei suoi predecessori. Non c’è alcuna ispirazione divina nella scrittura, che viene per questo riconsiderata e riapprezzata secondo un diverso punto di vista. Il poeta è un falegname, o un architetto, che gioca con le parole come se fossero il suo vivo e concreto materiale di lavoro. La sua è una costruzione che richiede tempo, ingegno, e che ha il suo punto di partenza nell’aspetto fenomenico del reale, nella materialità degli oggetti e degli eventi. Il lavoro del poeta, quindi, si risolve in Mandel’štam come un procedere attento e meticoloso, un’intenzionalità sempre sotto controllo. Il ruolo che gli è proprio è quello dell’artifex, mai del vate o del bohémien.

Se il testo poetico viene definito come una costruzione, esso si contrappone necessariamente al vuoto, al non-essere. Scrivere significa quindi affrontare lo spazio, superarlo. La razionalità del progetto, la sua «anima gotica», come la definisce Mandel’štam in Santa Sofia, mira a negare il «peso cattivo dell’inesistente», l’assenza di forma e di costruzione. Sconfiggere lo spazio per imporsi sul tempo, questo è l’intento di Mandel’štam. È infatti solo tramite l’edificazione di un’opera d’arte in sé duratura – e quindi eterna –, che diventa possibile oltrepassare i confini di spazio e tempo. Il superamento di questi limiti rimane però sempre relegato all’immanente. Se c’è un fine, sia pure anche l’eternità nel e del testo poetico, questo non può e non deve oltrepassare la concretezza fenomenica del reale. La totalità, per Mandel’štam, esiste solo nella consapevolezza della propria condizione: accettare il limite come gesto unico ed inderogabile per superarlo.

A conferma della solidità di questa poesia sta la solennità del verso e della lingua mandel’stamiana, capace di tenere assieme il quotidiano e il sublime, l’ironico e il tragico, senza per questo mai abbassarsi di tono; anzi, costruendo verso dopo verso un edificio poetico equilibrato e di una sostanzialità classica, sia dal punto di vista linguistico che formale. Kamen’, per quanto riguarda l’aspetto della metrica, ha il suo leit motiv nella quartina, spesso costruita come unità a sé nel testo. La caratteristica più evidente della strofa e del verso di questa raccolta, per quanto ci è possibile intendere dalle varie traduzioni dal russo, è proprio la sua autonomia e organicità. Ogni verso, ogni quartina, ogni poesia è un’opera d’arte a sé. Scrive Ripellino: «Le sue liriche sembrano fatte con diversi pezzi sovrapposti: ogni verso è un organismo a sé, un rilievo marmoreo, senza nessi logici con il seguente; e le immagini anch’esse sono staccate l’una dall’altra come elementi autonomi»18. O ancora Silvana de Vidovich, che evidenzia come si realizzi poi la strutturazione dell’opera: «All’interno della sua scrittura lenta, pesante, matura e solenne ogni elemento, pur nella sua completa autonomia, si lega ad altri con un sistema di rimandi-simmetrie interne. Mandel’štam combina le parole – che spesso ricorrono come costanti segni grafici per evidenziare nuovi e insospettabili nessi tra suono e significato – in una sintassi complessa, in cui termini di alta erudizione si mescolano a dettagli più banali, quotidiani, presi dal lessico familiare»19. In definitiva, si può dire che anche per quanto riguarda l’aspetto formale, Mandel’štam abbia come primo intento quello di contrapporsi al vuoto, allo spazio inerme, erigendo una poesia che, tramite accurate relazioni fra aulico e prosaico, assertivo e discorsivo, ipotattico e paratattico, vuole essere ricondotta e assimilata all’architettura.

Un’idea di eternità, esistere

Mostrata l’evoluzione della poesia di Mandel’štam sia dal punto di vista contenutistico che formale all’interno di Kamen’, occorre adesso, per concludere, cercare di capire il nucleo più profondo della raccolta. Leggendo questi testi, infatti, ciò che emerge è un’apparente contraddizione: da un lato l’idea di poesia come artigianato, l’abbassamento delle aspirazioni del poeta, il contenuto prosaico e quotidiano dei testi; dall’altro un senso di solennità, di tragicità, di sconforto esistenziale, che mirano invece verso un tono, una dizione e delle questioni alte e sublimi. A sciogliere il nodo di questa contrapposizione è, come scrive Averincev e viene ricordato da Lauretano nella sua Nota del curatore di Kamen’, l’argomento: «La solennità […] da cosa è motivata allora? […] appare evidente che l’argomento di cui si occupa è l’essere stesso delle cose»20. Ponendosi frontalmente dinnanzi all’esistente, accettando l’immanente come l’unico lato conoscibile della realtà, Mandel’štam costruisce così una poesia capace d’inserire il tragico nel quotidiano, di spostare gli interrogativi dal mondo trascendente dei simboli a quello tangibile dell’esperienza. Le grandi domande poste dai simbolisti riguardo l’uomo e la sua esistenza non vengono eluse, bensì spostate su un piano ontologico differente, quello terreno.

Se il mondo immanente è l’unico possibile, fondamentale diviene allora la presa di consapevolezza dell’esistenza in esso di sé e degli oggetti esterni. Potremmo dire infatti che Kamen’ non è altro che il percorso che il suo soggetto compie con il fine di ritrovarsi, vivo, nel mondo. La conferma della propria individualità, però, non viene prima di quella dell’Altro, oggetto o cosa che sia. Ogni fenomeno, in quanto reale e conoscibile, esiste, e la sua esistenza precede la sua morfologia. «Amate l’esistenza dell’oggetto più dell’oggetto stesso, e la vostra esistenza più di voi stessi, ecco il primo precetto dell’acmeismo» – scrive Mandel’štam nel quarto punto de Il mattino dell’acmeismo. Emblematica in questo senso una delle poesie più significative della raccolta:

Mi è stato dato un corpo – cosa devo farne
così unico e mio?

Per la placida gioia di respirare e vivere
chi, ditemi, devo ringraziare?

Io sono giardiniere e anche fiore,
nella prigione del mondo io non sono solo.

Sui vetri dell’eternità si è steso
il mio respiro, il mio calore.

Su di esso si è impresso un disegno
ultimamente indecifrabile.

Lasci che sgoccioli il sedimento dell’attimo –
il caro disegno non si può cancellare.21

A partire dal segno del proprio respiro rimasto impresso sul vetro, Mandel’štam analizza in una serie di sei distici a rima baciata la propria esistenza in quanto corpo nel mondo. Il corpo esiste, questo è tutto ciò che non può essere negato. Sembra non esserci ragione o causa, e anche la domanda sul creatore – colui che deve essere ringraziato – è destinata a rimanere senza risposta. Ciò che però è significativo è che il respiro, l’impressione del soggetto esistente, seppur indecifrabile, non può essere cancellato. L’esistenza dell’io lirico, quindi, non è preminente rispetto a quella dell’Altro, persona o cosa che sia, ma, come loro, esiste. Tutti i fenomeni, carichi ognuno della propria importanza, stanno sullo stesso piano; sono effimeri – in quanto attimo – ma anche eterni, in quanto hanno avuto parte nel mondo. Oltre a questo, il lato positivo della poesia, emerge però anche il suo risvolto negativo: l’io lirico, seppure certo della propria esistenza, pare non avere identità né consapevolezza di sé in quanto unicum. Come detto, a differenza dell’ultimo Mandel’štam, in particolare quello dei Quaderni di Voronez, questo di Kamen’ nega l’autobiografismo. Non essendoci coscienza di sé, non può esserci corrispondenza fra autore e centro d’enunciazione dei testi. Il corpo è «così unico e mio», ma non ha descrizione né contorni, e – cosa più importante – niente lo distingue dall’Altro. La scala del reale accoglie tutto ciò che esiste sullo stesso gradino.

Veniamo adesso a come viene affrontata la seconda delle due intuizioni pure – il tempo – in Kamen’. Se il concetto di spazio, in quanto spazio vuoto, veniva superato tramite l’edificazione del testo poetico, capace, come un’architettura, di utilizzare le tre dimensioni per imporsi su di esso; lo stesso avviene, secondo Mandel’štam, per eludere il concetto del tempo, per cogliere e definire quell’«eternità», che è l’approdo conclusivo dell’intera raccolta. Nell’edizione de «ilSaggiatore» di Kamen’ il termine «eternità» appare in sei differenti poesie: «Sui vetri dell’eternità si è steso / il mio respiro, il mio calore»22; «E se nei diamanti di ghiaccio / scorre il gelo dell’eternità, / qui c’è il palpito delle libellule / presto-in-vita, occhiazzurri…»23; «E la spocchia di Batjuškin mi ripugna: / Che ora è?, gli hanno domandato, / ma lui ha risposto a quei curiosi: è l’eternità»24; «e l’eternità suona sulle ore pietrose.»25; «Pochi vivono per l’eternità, / ma se per l’attimo sei angustiato / tremendo è il tuo destino e la tua casa fragile»26; «Tutti fan man bassa dell’eternità / ma l’eternità è come sabbia del mare. // Essa cade giù dal carro, / non basta la tela dei sacchi.»27.

Eccetto che nel caso di Batjuskin, dove ha un valore dispregiativo in quanto assimilabile al concetto di trascendenza, negli altri l’eternità è sempre il fine agognato dello sguardo del poeta, il porto inarrivabile, sempre sfuggente, della propria esistenza. In Mandel’štam, però, l’eternità non ha niente a che vedere con il simbolo o il trascendente; anche in questo caso essa poggia totalmente sulla realtà empirica e quotidiana del mondo esistente. Come Gorodeckij, che mirava a conferire la virtù della durata persino all’effimero, lo stesso vuole fare Mandel’štam, e proprio in questo identifica il concetto di eternità, che molto deve sia a Pëtr Čaadaev che a Dante28. Scrive giustamente Averincev riportato da Lauretano, riferendosi allo studio sullo stesso Čaadaev da parte di Mandel’štam: «dell’occidentalista russo del secolo scorso lo sbalordì l’idea dell’unità come legame di significato extratemporale, tuttavia presente nella concretezza non inventata della continuità storica»29. L’eternità quindi, come prodotto dell’atto storico, concreto, immanente. Se la poesia è un’opera d’arte valida in sé, eretta come un monumento, essa si proporrà non solo di imporsi nello spazio e nella triplice dimensione, ma anche di assumere – storicamente – una valenza extratemporale, valida e significante in ogni tempo. La totalità tanto ricercata dal poeta potrà quindi forse essere ritrovata nel gesto poetico stesso, nell’accettazione e nel riconoscimento di sé e del mondo tramite la poesia.

Per concludere, vorrei soffermarmi un momento su come si delinea la figura di Dio in questa raccolta. Emblematica è la poesia La tua immagine pietosa… che, in due quartine, condensa tutta l’importanza e allo stesso tempo la difficoltà per il poeta ebraico di affrontare questo tema. Dio, in quanto parola, significato e significante, non può essere nominato. Tutto tocca la poesia eccetto il Signore. Quando lo fa, accade questo: «Il nome di Dio, come un grande uccello, / mi è volato via dal petto. / Davanti turbina una fitta nebbia / dietro la gabbia è rimasta vuota…»30. Lo stesso si nota in una delle poesie più intense di Kamen’: Il luterano. In questo caso, pur descrivendo un funerale al quale il soggetto del testo si è ritrovato ad assistere, e pur facendolo con grande accuratezza, Mandel’štam non nomina mai Dio. Viene presentata la scena, la chiesa, i parrocchiani severamente emozionati, le parole straniere udite, la corona di rose autunnali che appare sul carro funebre, ma non Dio, che rimane sullo sfondo, una presenza con la quale non si riesce ad istituire un rapporto di parola. È però sempre questa poesia, con il suo finale, seppur anche chiaramente allusivo alle dispute con i simbolisti, che forse ci dà una risposta:

E io pensavo: non serve essere retorici
non siamo profeti, neanche precursori
non agogniamo il paradiso, l’inferno non temiamo
e nel meriggio scialbo ardiamo, come ceri.31

Dio non si nomina perché poggia su un piano totalmente diverso rispetto a quello dell’uomo, un piano che non garantisce risposte certe né definitive. La relazione che può essere instaurata fra i due non può quindi essere di parola, ma al massimo di aspirazione, di ricerca. Mandel’štam squarcia qui con grande umiltà il velo di trascendenze o ambizioni che fino a quel momento guidava l’uomo russo. L’eternità è un rimpianto d’eternità, e ciò che resta all’uomo è un grigiore quotidiano, l’ardere scialbo e impercettibile nel meriggio.

***

1 Il termine acmeismo, dal greco akmé, ha plurimi significati in russo: ‘vertice’, ‘punto culminante’, ‘massimo vigore’, ‘il più alto grado di qualcosa’, ‘il fiore’, ‘la stagione del rigoglio’.

2 Il termine adamismo fu fortemente voluto da Gorodeckij, uno dei tre autori dei manifesti del movimento. Con esso, Gorodeckij voleva richiamarsi direttamente al libro d’apertura della Genesi, in cui Adamo – da qui adamismo – per primo dà un nome alle cose; ed è proprio questo atto primigenio di nominazione dell’esistente uno dei punti fermi dell’acmeismo: definire nuovamente, con forza, chiarezza e linearità, tutto ciò che esiste, come se niente fosse stato davvero nominato. Accettare e guardare al mondo con gli stessi occhi di Adamo, primo uomo: questo è l’intento dell’acmeismo.

3 O prekràsnoj jàsnosti [‘Della magnifica chiarezza’], M. Kuzmin, in «Apollòn», 1910, n. 4.

4 Scrive su questo punto Gumilev: «[…] ricordarsi sempre dell’inconoscibile, senza offenderne la riflessione con più o meno probabili congetture: ecco il primo principio dell’Acmeismo».

5 Kamen’, edizione critica a cura di Ginsburg, Mets, Vasilenko, Frejdin, Nauka, Leningrado, 1990.

6 Stichotvorenija. Proza, edizione critica a cura di Frejdin, Gasparov, Ripol Klassik, Mosca, 2001.

7 Il processo compositivo di «La pietra», G. Lauretano, da O. Mandel’stam, La pietra, ilSaggiatore, Milano, 2014, p.184 [corsivo mio].

8 Si noti a questo proposito alcuni passi dei testi di Kamen’, in particolare certi sguardi sul paesaggio, certe atmosfere, certi smarrimenti nella memoria, che richiamano alla mente il Verlaine dei Poémes Saturniens: «Che dondolavo in un lontano giardino / su una semplice altalena di legno / e di abeti alti e bui / mi ricordo in un delirio annebbiato» (da Leggere solo libri per bambini, O. Mandel’stam, ilSaggiatore, p. 15); «Un’inesprimibile tristezza / ha aperto due enormi occhi […] Tutta la camera è imbevuta / di languore – dolce medicina!» (da Un’inesprimibile tristezza, p. 25); «Io la tristezza, come un uccello grigio, / porto lentamente nel cuore», «Il mattino, tenerezza senza fondo, / semirealtà e semisogno, / assopimento indissetato / nebbioso suono di pensieri…» (da Un misero raggio, con misura fredda, p. 47);

9 Utro akmeizma [‘Il mattino dell’acmeismo’], in «Sirèna», 1919, n. 4-5.

10 Il mattino dell’acmeismo, O. Mandel’stam, da G. Kraiski, Le poetiche russe del Novecento, Editore Laterza, Bari, 1968, p. 64.

11 Ibidem, p. 62.

12 Ibidem, p. 64.

13 Ibidem, p. 66.

14 La pietra, O. Mandel’stam, ilSaggiatore, Milano, 2014, pp.174-175.

15 Ibidem, p. 129.

16 Ibidem, p. 55.

17 Ibidem, p. 111.

18 A. M. Ripellino, Poesia Russa del Novecento, Guanda, Parma, 1954, p. XLIII.

19 S. de Vidovich, Letteratura russa, Antonio Vallardi Editore, Milano, 2003, p. 212.

20 La pietra, O. Mandel’stam, p. 178.

21 Ibidem, p. 23.

22 Ibidem.

23 Ibidem, p. 31.

24 Ibidem, p. 69.

25 Ibidem, p. 71.

26 Ibidem, p. 75.

27 Ibidem, p. 113.

28 Proprio su questi due autori Mandel’stam scrisse due importanti saggi. Quello su Dante è stato edito da «Il Nuovo Melangolo» nel 2007, col titolo di Conversazione su Dante.

29 La pietra, O. Mandel’stam, p. 181.

30 Ibidem, p. 67.

31 Ibidem, p. 85.

Immagine: Rodchenko, Chauffeur (1933)

4 comments

  • Sono le più raffinate e dotte meditazioni su Mandel’stam di “Pietra”, per abilità interpretativa
    del più grande poeta del Novecento e per icasticità espressiva. La scopro e la leggo soltanto
    oggi, hic et nunc dico che questa è la più dotta e raffinata pagina di critica letteraria da me
    letta, comparabile soltanto, fatte le dovute differenze stilistiche, a quelle con certi lavori critici di Giorgio Linguaglossa sulla poesia russa…
    Vorrei, ma non so come fare, instaurare un rapporto non saltuario ma permanente con Pietro Cardelli in fatti poetici ed ermeneutici. Per ora gli esprimo piena e grata ammirazione.

    Gino Rago

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  • Grazie, Pietro. Ho timore dell’invadenza, della irruzione nel tuo tempo e nel tuo spazio personali; ma penso che impiegherò la tua e-mail.
    (Sono nella redazione de L’Ombra delle Parole).
    Buon tutto,
    Gino Rago

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