di Simone Burratti
“…
sia il tuo schivarti, penna, e l’inchinarti…”
Andrea Zanzotto
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Abbiamo finalmente creato (immaginato) uno spazio possibile, tracciato dei confini intorno all’oggetto della nostra ricerca: procedendo sempre per negazione, rifiutando le avanguardie e le soluzioni facili, le chiusure a effetto, le suggestioni della rappresentazione; e allo stesso tempo evitando tutti i moduli usurati, i meccanismi perfetti, gli stilemi fini a se stessi. E quindi: fuori della letteratura ma: letteratura, come un figlio che voglia staccarsi dal modello paterno e, con grande sacrificio, crearsi una sua identità, anche all’insegna dell’opposizione, anche di minore profilo, ma sempre legata alla trasmissione dei geni, sempre con lo stesso cognome.
La griglia vuota che ne rimane, e il verso immaginato, mai scritto o pronunciato o formulato, che vorremmo contenuto al suo interno, sono piuttosto una gamma di possibilità (soluzioni) che non un programma o una scelta, e potremmo tutt’al più individuarli in absentia, assegnare ad entrambi degli aggettivi utili: pulita, compatta, libero, vero. Dopodiché, non potendo procedere oltre, faremmo bene a non pensarci più, tornando magari a leggere un sonetto del Petrarca, o qualche verso di Hoelderlin, o – scegliamo: A slumber did my spirit seal.
Quando quello stesso torpore, molto tempo dopo, ci porterà a colmare questo contenitore latente, il testo formato sarà il risultato di una prudenza, ellittico anziché retorico, in grado di saltare il passaggio che manca ma senza per questo sembrare analogico; non una “composizione” ma piuttosto una “lista” di versi, o un blocco di senso in sé compiuto, un pensiero pronunciato con altezza e scritto, che si possa immaginare solo su certi tipi e formati di carta: un pensiero da usare o dare, materialmente.
E se a una prima occhiata, di fronte a questo rimasuglio male organizzato, ci sembrerà di notare una distanza da quello che ci proponevamo di scrivere, magari addirittura un’istanza avanguardistica che proprio all’inizio avevamo deciso di rifuggire, ci renderemo conto, subito dopo, che questa distanza è solo apparente, limitata alla componente corruttibile della forma, e quell’istanza temuta inesistente, neutralizzata da un rispetto, etico e teorico, per la letteratura come codice – che è poi lo stesso scarto esistente tra il poeta qui posto in esergo e i suoi più diretti avversari, ma situato in un’epoca ancora più severa – ; e ancora, troveremo la giustezza del percorso in una tradizione dissimulata, disinnescata, di minore livello eppure sempre presa sul serio: come se si potesse incarnare realmente il modello solo per negazione, innestando una purezza “verticale” (di atteggiamento mentale e nell’oggetto) su un’esistenza storica effettiva “orizzontale” (sulla carta, nella forma). Perché dove lo stilema cade la frase si libera, dove il modulo muore nasce una poesia nuova, nella sua forma vera, da accudire e sviluppare come un’equazione o un figlio, finché non sarà palese la sua strada e proseguirà senza di noi, dopo di noi. E dunque accettiamo questo rischio ai primi passi, senza pretendere più che qualcosa di incerto, instabile e contraddittorio, amiamolo e dedichiamoci ad esso come a una volontà pulita – e odiamo tutto il resto, nostro e loro.
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Immagine: Kasimir Malevic, Quadrato bianco su sfondo bianco (1919)
Curiosa, vi aspetto.
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